Una relazione di cura

Intervento alla giornata organizzata dal coordinamento di Torino del programma di formazione continua per i medici dell'Istituto freudiano il 12 aprile 02 sul tema "Il corpo,la diagnosi,la cura. Aspetti etici e clinici della comunicazione medico-paziente"

  • Publicado en NODVS III, juliol de 2002

Paraules clau

impossibile, soggettivitá, parola, veritá, sapere

Che cos’è la clinica psicoanalitica, se non l’incontro tra parole e corpo? L’invenzione di Freud prende origine dalle manifestazioni corporee portate dalle isteriche, che parlavano con il loro corpo, i loro sintomi e domandavano la parola. Freud decise di ascoltarle e così facendo interpretò il rapporto tra corpo e linguaggio dimostrando che la sessualità si inscrive in tale rapporto.

L’intervento della parola sul corpo inaugura la psicoanalisi. Poiché i significanti rimossi si imprimono sul corpo producendo dei sintomi, occorrerà riuscire a sloggiarli per liberare il soggetto dalla sua sofferenza. Bisogna però che il lamento si trasformi in domanda, che i mali diventino parole. Se Freud ha messo in evidenza che la relazione tra il desiderio e il corpo passa necessariamente attraverso il linguaggio, Jacques Lacan non ha smesso di mantenere aperta la faglia che Freud aveva scoperto e che aveva chiamato inconscio. Si tratta del fatto che gli uomini e le donne non possono dirsi tutto sul desiderio per il fatto stesso di essere ingombrati da un corpo toccato dalla mancanza.

Nell’epoca in cui la scienza ha tendenza a trattare il corpo come fatto di pura stoffa organica, non è inutile che gli psicoanalisti ricordino che il corpo da cui dipendiamo esiste soltanto nel suo rapporto con il mondo e con il desiderio dell’Altro, attraverso il linguaggio.

Il corpo, quindi, è affetto dal linguaggio e d’altronde il linguaggio a sua volta è affetto dal corpo: basta che appaia un disfunzionamento o il dolore per rivelare questo. La malattia non altera soltanto gli organi, ma trasforma anche l’immagine del corpo che il soggetto ha di sé, così come il suo discorso. Quando i malati si mettono a parlare del loro corpo rivelano che esso non è soltanto organico.

L’indicazione di Jacques Lacan del 1966 sull’avvenire della “posizione propriamente medica” dipendente dal “modo di risposta alla domanda del malato” è più che mai di attualità.

E’ vero che da allora la situazione è profondamente cambiata con i progressi crescenti del discorso della scienza che tende ad affermare sempre di più la sua padronanza sulla malattia, la vecchiaia e la morte e che estende il suo potere sulla natura fino a minacciare la riproduzione sessuata.

La domanda medica, con il valore fondamentale accordato alla salute, si è profondamente modificata: domanda di benessere, di felicità, di riparazione, o domanda di un oggetto che possa colmare ogni mancanza e dissipare i malesseri.

Nella sua risposta alla domanda del paziente, il medico svolge spesso la funzione di distributore di “oggetti” per godere di più, in particolare distributore di medicine.

Una clinica della parola, anche associata agli strumenti della scienza, che permette l’accoglimento di un lamento e la presa in conto dello scarto tra il desiderio del soggetto e la sua domanda, è importante anche nel campo medico. Questo anche perché esso attira sempre di più il “disagio nella civiltà” in questa epoca in cui il corpo e i mali del corpo sono materia ghiotta per i mezzi di comunicazione di massa. Il posto dello psicoanalista nella medicina è non soltanto marginale ma anche difficile, tuttavia non è meno giustificato se pensiamo che l’incontro con la psicoanalisi è sempre una possibilità per un soggetto.

E’ vero che la persona, soprattutto se affetta da una malattia grave, chiede prima di tutto la guarigione. Vale tuttavia la pena di domandarsi se dietro tale domanda ci sia qualcosa di più. Infatti quando il corpo è sano tendenzialmente si fa dimenticare, resta muto. Quando invece è malato si mette in primo piano. Come Freud notava, in quel caso la libido si concentra tutta sulla sofferenza., modificando il rapporto che il soggetto ha con il suo corpo.

L’annuncio di una diagnosi grave è una vera effrazione nella vita di un soggetto. E mentre abitualmente ciascuno si impegna a dimenticare di essere mortale, in questo caso si è obbligati a considerare la propria morte, anche se essa non è rappresentabile nell’inconscio. Il malato è perciò confrontato a un impensabile di cui dovrà tuttavia tener conto.

Si tratta quasi sempre di un incontro traumatico, vale a dire dell’incontro con un significante enigmatico a cui il soggetto da quel momento cerca di trovare un significato. Per fare questo parte quindi da un non-senso e cerca di darvi senso inventando la sua teoria sulla causa della malattia. In questo modo cerca di introdurre l’evento traumatico nella sua storia, nella concatenazione degli eventi della sua vita, di ancorarlo a qualcosa di significante, e di simbolizzarlo con l’artificio del significato. Costruendo una teoria della sua malattia opera un passaggio importante: quello di introdursi come soggetto dove prima non c’era. Facendo dell’evento un enigma può aprirsi un desiderio di sapere. Quello che fa accettare ai malati, anche ai portatori di malattie gravi, l’offerta dell’analisi è il tentativo di contornare l’indicibile e di cercare di dirlo.

Perciò possiamo dire che se è vero che i malati domandano ai medici di guarirli, essi domandano anche la parola. Come se al di là della supposizione di saperli guarire che viene prestata ai medici, restasse in sospeso una supposizione di sapere l’origine inconscia della malattia e perciò la causa della sofferenza in attesa che qualcuno se ne faccia supporto. Al di là della guarigione, la sua domanda è di essere curato della sua divisione. Nello sconvolgimento in cui l’ha gettato l’incontro con il reale della malattia, il soggetto è alla ricerca di un indirizzo per la sua parola.

Da sempre il campo medico incontra il suo impossibile di fronte alle malattie mortali. Oggi che le scoperte mediche e scientifiche sono di grande portata le pretese dell’ideale aumentano e gli scacchi sono ancora di più mal sopportati. E’ lì che il campo medico è condotto all’impotenza, maschera moderna in fondo di un desiderio di potere e sapere tutto. E’ un male che non tocca soltanto il campo medico, poiché anche lo psicoanalista che voglia a tutti i costi il bene del suo paziente cadrà nella stessa trappola.

Che cosa significa confrontarsi con l’impossibile? Lo psicoanalista impara prima di tutto che di fronte alla domanda che viene posta “Ma che cosa mi sta capitando?” occorre poter permettere al soggetto di costruire una elaborazione che gli appartenga. E’ il solo modo di staccarsi dalla siderazione provocata dalla morte prevista e predetta dalla scienza, come se fosse scritta nell’organismo.

E’ opportuno tenere conto che se l’organismo è del registro del vivente, il corpo è abitato da una parola, sia essa articolata o no. Lo psicoanalista può rispondere soltanto da questo luogo.

Quando ci troviamo di fronte a malattie mortali, che portano con esse un’idea di destino maledetto, bisogna saper opporre al potere siderante la possibilità di parlare, di articolare, di elaborare. Di fronte al rischio di morte che sta al centro di certe malattie ci vuole rispetto delle parole e dei mali, per tentare di intendere delle sofferenze al limite dell’ascoltabile, sofferenze mute e quindi altamente distruttive, che fanno sì che l’incontro con ciò che sta capitandoci, faccia sentire l’essere minacciato nella sua identità e nella sua sicurezza più vitale.

Freud non ha smesso di dire che nell’inconscio non ci sono rappresentazioni della morte e Lacan ci ha spesso ricordato che nessuno può guardare la morte in faccia. Noi parlanti accediamo alla morte attraverso la morte dell’altro. Per confrontarci all’impossibile non possiamo che confrontarci con il non sapere della morte. In fondo si tratta di ricordarsi che incontrare un essere umano è sempre incontrare un enigma.

Si tratta di fronte a un malato affetto da una malattia a rischio, di non lasciare che sia paralizzato dal sentimento che quella malattia sia qualcosa che lo fissa in una situazione che rende inutile pensare che possano esserci ancora delle novità. Occorre contrastare qualsiasi discorso assoluto e opporvi quella possibilità di dire che crea una distanza sufficiente dalla malattia affinché sia lasciata al soggetto la sua propria libertà soggettiva.

Nessuno ha un sapere preliminare nei confronti dell’accompagnamento verso la morte. E’ un’esperienza sempre inedita. E nessuno detiene un sapere sull’ora e il giorno della morte di altri. Credere di poterlo avere è azzardarsi a dire una parola che, essa sì, può uccidere.

Mi è capitato di lavorare, nei mesi scorsi, con dei medici infettivologi, specializzati nella presa in carico sia di persone affette di AIDS sia nel trattamento di persone scopertesi sieropositive. Ho potuto constatare come in questi casi le disavventure e le trasformazioni della relazione medico-paziente siano spesso in primo piano.

Evidentemente la relazione tra il medico e il malato non è una relazione egualitaria. Per il malato si tratta del suo corpo, della sua intimità, della sua vita. Per il medico, della sua implicazione in un campo particolare, della sua vita professionale, magari delle sue questioni intorno alla morte. Egli è depositario del segreto di una parte della vita di un altro.

Il più delle volte l’incontro tra il medico e il paziente non è frutto di una scelta della persona. Il medico a volte è colui che considera la possibilità dell’infezione ancora prima che il paziente evochi qualsiasi possibilità di contaminazione. La conoscenza della sua sieropositivà, il sapere che il paziente riceve dal medico sfocia spesso su ben poco di concreto, una terapia, delle indicazioni scritte su un pezzo di carta. Il medico dà il risultato del test e le sue parole prendono per il soggetto un vero valore di oracolo.

In questo caso il medico ha chiaramente l’obbligo di parola: non può nascondere a una persona il suo stato, non soltanto perché possa curarsi, ma anche affinché possa avvertire il/la partner e adottare dei comportamenti di prevenzione.

Di colpo si pone la differenza tra sapere e verità. Il medico crede spesso che il sapere scientifico che dispensa diventi la verità per il soggetto. Non è così. Il soggetto percepirà la sua condizione e eventualmente i suoi sintomi nel corso del tempo, mano a mano che qualcosa intorno al quel non senso sprigiona un po’ di senso, e secondo la propria storia.

Parallelamente può sopraggiungere una certa efflorescenza immaginaria, in cui il soggetto interroga le linee particolari del suo desiderio e dei suoi godimenti, dal momento che la contaminazione è spesso collegata ai modi di godimento del soggetto.

Sovente per il paziente asintomatico il tempo diventa un tempo di attesa angosciosa. Di fronte all’assenza di elementi sintomatici concreti nasce un’attenzione particolare al corpo, vissuto come sempre sul punto di venire meno. Non essendoci anticipazione sull’evoluzione possibile, ciò può essere vissuto dal soggetto come una difficoltà di padronanza del proprio destino.

Spesso il paziente interroga il medico per avere delle risposte che gli permettano di economizzare meglio il godimento del suo tempo. Per fortuna il più delle volte il medico sa che il destino di chi lo interroga non risiede intieramente nelle statistiche o nei dati di cui viene a conoscenza. E’ un bene quando lo sa, poiché altrimenti rischia di dare delle cifre che diventano un vero fardello sulle spalle del paziente, dal momento che, come diceva Freud, diventa impossibile vivere con l’idea della propria morte.

In questi casi poi la relazione medico-malato è una relazione di lunga durata, che oggi si estende anche per parecchi anni. Si tratta di una relazione che possiede una dimensione di transfert, con delle variazioni nell’amore che l’uno e l’altro provano. Il medico che dapprima appare tutto perfetto, per un nonnulla diventa insopportabile.

In fondo con la comparsa di sintomi il paziente opera dei tentativi di soggettivazione di ciò che gli capita: in realtà nessuno meglio di lui può sapere l’esatta situazione della sua tenuta fisica e l’impatto sulla sua vita.

La grande diffusione del sapere scientifico nel campo della sieropositività e delle infezioni da HIV, mette apparentemente tale sapere alla portata di tutti, ma questo non deve farci illudere su una reale condivisione di sapere. In realtà è importante che il medico intenda ciò che il paziente domanda, senza cedere alla tentazione di rifilargli un sapere che non chiede o che almeno vuole acquisire con i propri ritmi.

Lasciare al paziente il proprio posto di soggetto significa anche permettergli di esprimere il proprio lamento, la propria sofferenza fisica cui spesso oggi può essere dato sollievo, ma anche la propria sofferenza psichica, di fronte alla quale a volte il medico può riconoscere i propri limiti. Il legame di parola che stabilisce con il paziente gli può allora permettere di suggerire l’indirizzo di qualcuno, magari uno psicoanalista, cui il paziente può rivolgersi per iniziare un lavoro di elaborazione, e che avendo una posizione di terzo tra medico e paziente potrà essere di sollievo sia all’uno che all’altro.

La medicina è oggi spesso molto efficace. Lo sguardo clinico del medico è sostituito da immagini tanto precise da permettergli di rappresentarsi l’interno del corpo e di decomporlo quasi all’infinito fino a livello della cellula. La potenza degli strumenti dello sguardo e i risultati sempre più precisi delle analisi biologiche, danno alla medicina una certa autonomia in rapporto alla parola del paziente, il cui lamento doloroso sul sintomo, da sempre alla base della consultazione medica, perde progressivamente il suo statuto. Questo accade in vari ambiti di malattie ritenute gravi, accade per esempio nel campo della cancerologia. In fondo in questo campo, come in quello delle malattie infettive da HIV, le cose si sono per qualche verso rovesciate: la parola del paziente rimane più che altro un elemento di verifica di un sapere che si costruisce al di fuori di essa.

La scienza della diagnosi tende a far a meno della parola del paziente, anche perché ha i mezzi per anticipare di molto l’apparizione di segni di malattia. Capita ormai spesso, quando si tratti di cancro o di certe malattie infettive, che la prima parola non sia il lamento del soggetto, ma quella del medico che enuncia la necessità di mettere in atto un processo terapeutico.

In un campo in cui il reale lo si coglie secondo una logica del visibile e dell’oggettivabile, dove si possono reperire gli indizi della soggettività?

Partiamo da questa parola diagnostica. L’informazione che lo specialista dispensa, quando per esempio si tratta di cancro – di cui non bisogna dimenticare che la ricerca non ha ancora mai trovato la causa, produce continuamente nuove ipotesi come cause parziali, riguarda il fatto di mettere a disposizione di ogni paziente un programma terapeutico pesante per una patologia senza causa il cui esito è incerto.

I pazienti più avvertiti pretendono anche la prognosi e i medici sanno che dire la verità vera sul meccanismo della malattia, sugli effetti dei medicinali, ecc. è impossibile. Quello che il medico dice, il sapere che fornisce, è sempre il risultato di una scelta che il medico opera per rendere la cosa sopportabile al paziente, naturalmente secondo la rappresentazione che egli si fa di ciò che il paziente potrebbe sopportare di sentire. Quindi in definitiva ciò che il medico dice non è mai la verità ritenuta scientifica ma una verità soggettiva espressa da un medico particolare per un paziente particolare. Si tratta di pezzi di sapere della medicina scelti da un medico particolare, che si trova quindi, nel suo atto soggettivo, diviso tra sapere e verità.

Dalla parte del paziente il sapere che gli è proposto, privo della sua causa, rilancia l’interrogazione della causa nel paziente. Infatti il paziente comincia a domandarsi: perché proprio io? Che ho fatto di male per essere punito così? ecc. Insomma il paziente riprende tutta la questione dell’origine della malattia a partire da se stesso e dal suo essere. Inoltre del discorso del medico, così come di tutti i trattamenti cui è sottoposto, il paziente privilegia questo o quel significante per inscrivervi la sua esperienza. Costruisce così una verità soggettiva nel movimento di alienazione al sapere medico.

Vediamo dunque a che punto la questione della soggettività è presente nella pratica medica e nella relazione medico-paziente. E’ reperibile nella parola del medico che privilegia alcuni significanti del suo sapere per proporli al paziente. E’ reperibile nel paziente quando prende a suo carico la questione della causa, interrogandosi su se stesso, il proprio stile di vita, ecc.

La medicina contemporanea, grazie ai progressi della scienza, tralascia la questione della verità del soggetto e, al di fuori di certe malattie per le quali è chiamata in causa la sessualità e che generano vergogna, la malattia non è più ritenuta un castigo del cielo. Tuttavia occorre tenere conto che, nel corso dei secoli, la persona guariva in misura della sua domanda d’amore misurata sulla base del perdono ricevuto da Dio.

L’arte di guarire evoca un legame sociale, che forse oggi è un po’ compromesso da una disumanizzazione introdotta da un rigore tecnico che rende il mistero del desiderio di guarire inaccessibile a ciò che lo sottende, alle domande che lo dicono. In questo modo l’attesa della guarigione diventa estranea alle cose d’amore. Eppure, come dice Lacan nel suo seminario Il transfert, la guarigione, come tutti gli effetti dell’atto analitico, partecipa del miracolo, di quel miracolo che mette chi cura alla mercé di colui che è curato. Il miracolo è il transfert, quella relazione che in analisi convoca l’analista dove l’interrogano le questioni di verità che i sintomi pongono al sapere attraverso anche le domande di cura.

Ci sono malati che mettono in difficoltà il medico perché non si coglie quale sia la loro domanda. Quando la sofferenza non può ridursi al dolore di un corpo malato, o quando il malato resiste ad ogni trattamento, il corpo diventa un enigma. Esso diventa il testimone stesso dello scacco della medicina che mette in rilievo che la causalità organica non viene mai senza una causalità psichica che sistema in modo originale la realtà e non entra solitamente nel quadro simbolico che il discorso medico costruisce. Insomma la scienza non può rispondere al disagio del soggetto che si rivela nel suo corpo sotto forma di sintomo. E’ lì che eventualmente lo psicoanalista può essere chiamato in causa. Egli può occupare la posizione opportuna per fare acquisire al sintomo, e al modo in cui è formulato dal medico, un senso sufficientemente opaco perché il soggetto possa incontrarvi la questione del suo desiderio. Attraverso il loro desiderio di sapere anche i soggetti toccati da malattie gravi trovano un senso alla loro esistenza.

Bisogna comunque sapere che non basta la sofferenza per produrre un desiderio di sapere. Ci sono coloro che non credono alla guarigione, coloro che affidano il loro corpo al medico senza farlo diventare un mezzo di parola, coloro che non ne vogliono sapere niente, che non sopportano alcuna interrogazione.

Quello che la psicoanalisi può fare, quando ci siano i presupposti, è di far sì che il corpo non sia soltanto preso come un oggetto ma sia trattato come il corpo di un soggetto che può essere aiutato a decifrare che cosa insiste attraverso la sua malattia.

Far circolare la parola dove le tecnologie prendono il sopravvento è qualcosa di importante, è dare un apporto affinché la dimensione del malato in quanto soggetto a tutti gli effetti, sia rispettata, anche nella particolarità della relazione medico-malato.

Rosa Elena Manzetti

Una relazione di cura

NODVS III, juliol de 2002

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